Come è noto proprio al meccanismo ISDS quale strumento di risoluzione delle controversie si rivolge buona parte delle critiche al negoziato relativo all’accordo TTIP. Quest’ultimo viene talora percepito come “l’arma delle multinazionali contro la sovranità degli Stati”, a causa della scelta di non attribuire la competenza a decidere sulle controversie tra Stati e investitori stranieri all’autorità giudiziaria dello Stato ospite, per affidarle invece ad organi arbitrali ritenuti non affidabili e, in ogni caso, non indipendenti o, addirittura, viziati da insanabili conflitti di interesse e che, per di più, sarebbero svincolati da qualsiasi forma di controllo statale con il rischio di spogliare lo Stato di una delle sue attribuzioni più tipiche e irrinunciabili, consistente nell’amministrazione della giustizia attraverso propri tribunali.
A prescindere dalle valutazioni circa la fondatezza di tali prese di posizione, il meccanismo ISDS in questione viene riproposto nel negoziato TTIP dopo essere già stato inserito, come si è visto, in altri accordi negoziati dall’Unione. La Commissione si è fin qui mossa nella convinzione che il meccanismo arbitrale di risoluzione delle controversie debba costituire un modello al quale ispirarsi in tutti gli accordi internazionali in materia di investimenti che l’Unione sta stipulando e stipulerà in futuro. Del resto, la stessa lettura delle Direttive di negoziato elaborate dal Consiglio e indirizzate alla Commissione contribuisce proprio a confermare tale impressione.
La stessa Commissione ha anche insistito nel sottolineare i vantaggi per gli investitori europei che, in assenza di questo meccanismo, rischierebbero di vedersi preclusa la possibilità di ottenere in concreto un risarcimento dei danni derivanti da espropriazioni dirette o indirette senza indennizzo.
Inoltre, non vi è dubbio che dal successo di questo specifico negoziato, legato almeno in parte anche all’applicazione del modello in questione, può dipendere il futuro di altri accordi, ad esempio di quello destinato a disciplinare l’insieme dei rapporti commerciali con la Cina. Si tratta naturalmente di due profili diversi, l’uno attinente ai contenuti e al merito del modello di disciplina sul tappeto e alla condivisibilità ed efficacia dei criteri espressi dalle direttive del Consiglio, l’altra alla stessa opportunità di negoziare l’accordo e delle prospettive che questo può aprire non solo per gli investitori, ma anche per i consumatori e per il mercato europeo. Su quest’ultimo aspetto pesano ovviamente valutazioni in buona parte economiche e politiche che sono certo prioritarie, ma che non possono tuttavia rientrare tra i profili esaminati in questo contributo.
A fronte di critiche di altra natura, colpisce la sostanziale assenza di prese di posizione quanto meno dubitative a proposito di talune non irrilevanti ricadute interne all’Unione europea derivanti dalle nuove competenze assunte dall’Unione e dalla volontà di intavolare negoziati e di concludere importanti accordi internazionali in materia di libero scambio e di protezione degli investimenti.
Probabilmente a causa dei loro contenuti indiscutibilmente molto tecnici, ma anche di un minore richiamo sul piano emotivo prima ancora che politico, le disposizioni di diritto secondario adottate dall’Unione tra il 2012 e il 2014 volte a disciplinare talune conseguenze estremamente concrete del nuovo riparto di responsabilità tra Unione e Stati membri sembrano essere passate quasi inosservate. Allo stesso modo, ma sotto altro profilo, i meccanismi di filtro previsti dagli accordi con Singapore e con il Canada come preliminari alla fase introduttiva al fine di individuare la figura del soggetto da convenire in giudizio, paiono rispondere a criteri del tutto opposti alle esigenze di semplificazione procedurale e di immediatezza di accesso al procedimento arbitrale; o almeno così rischiano fortemente di essere percepiti non solo dagli operatori economici, ma anche dalle amministrazioni pubbliche coinvolte.
A tale proposito si deve osservare che l’opzione a favore del meccanismo ISDS appartiene alla categoria di scelte che non solo suscita reazioni estremamente diverse tra gli “addetti ai lavori” e nell’opinione pubblica, ma che ha anche una forte valenza divisiva tra favorevoli e contrari. Su tali reazioni e prese di posizione influiscono, naturalmente, non solo valutazioni tecnico giuridiche, ma altresì (se non soprattutto) punti di vista politici, e radicate convinzioni ideologiche. Ora, se si dovesse prospettare la questione del sistema di risoluzione delle controversie tra Stato e stranieri in termini generali di alternativa tra esercizio della funzione giurisdizionale statale e delega della medesima funzione a non meglio identificate forme di gestione privata (per di più poco o per nulla trasparente), è del tutto evidente che si tratterebbe di una indicazione che non può non suscitare numerosi e più che legittimi dubbi e interrogativi. Per evitare di cadere – per quanto possibile – nell’errore di effettuare delle valutazioni approssimative va sottolineato che non si tratta qui di schierarsi aprioristicamente a favore o contro una simile opzione e ci si deve in ogni caso domandare se è davvero questo che la Commissione sta proponendo dall’anno 2010, o se, invece, non sia più corretto circoscrivere la portata, i contenuti e i limiti oggettivi e soggettivi della questione.
Sul piano dell’opportunità si osservi che la Commissione - nel cercare di mettere in luce alcuni vantaggi che deriverebbero agli investitori europei dalla previsione del meccanismo ISDS nei negoziati commerciali (tra i quali quelli relativi al TTIP) – ha sottolineato in più occasioni il rischio che essi altrimenti correrebbero di vedersi precluse forme di risarcimento dei danni derivanti da misure di espropriazione dirette o indirette senza indennizzo. Ciò a causa dell’impossibilità di applicazione diretta degli accordi in questione da parte delle giurisdizioni nazionali di molti Paesi ospiti.
Un secondo aspetto riguarda gli effetti della trasposizione del “modello” di ISDS già inserito nei precedenti accordi nel negoziato TTIP. Da questo punto di vista ci sembra che non sempre venga attribuito il giusto rilievo alla circostanza che il meccanismo in questione ha il pregio di comportare l’espresso divieto per lo Stato dell’investitore di fare ricorso alla protezione diplomatica come mezzo di risoluzione delle controversie con lo Stato ospite. Questa scelta, in linea con il modello ICSID al quale si è fatto cenno e con la prassi dei BIT conclusi dai Paesi dell’Unione europea, è inoltre di per sé opportuna in quanto evita i noti inconvenienti propri dell’istituto della protezione diplomatica che, oltre a non implicare alcun automatismo circa l’intervento dello Stato di cittadinanza, trasforma l’eventuale controversia in un confronto tra enti sovrani senza assicurare una reale tutela dei diritti sottostanti.
Ma la circostanza più rilevante che fa propendere per un giudizio favorevole circa ricorso al meccanismo ISDS riguarda le condizioni e gli stessi limiti della sua applicazione. Non solo si tratta di una riproposizione del modello ormai classico presente nella stragrande maggioranza degli accordi in materia di protezione degli investimenti, ma soprattutto si tratta di introdurre un meccanismo al quale fare ricorso solo in circostanze precise secondo le disposizioni del relativo accordo. Questo è, infatti, quello che emerge dagli esempi degli accordi recentemente sottoscritti dall’Unione europea e che formano il modello di riferimento per il negoziato TTIP. Come diremo di qui a poco, si tratta per di più di modelli suscettibili di modifiche e miglioramenti nel senso del rigore che si rende ancora più opportuno in un negoziato complesso e articolato come quello per il TTIP.
In tale prospettiva si potrebbe tentare di rivedere il duplice assunto di partenza – talvolta talmente di maniera da divenire autentico stereotipo – che identifica l’investitore con l’impresa multinazionale e lo Stato ospite dell’investimento con il Paese in via di sviluppo. Analoghe considerazioni valgono poi quanto al pregiudizio (in passato non infondato) circa un atteggiamento più incline a considerare le ragioni dell’investitore proprio dell’”universo” arbitrale, ma che non risulta più attendibile alla luce della prassi arbitrale più recente. Se questa duplice rappresentazione aveva una sua evidenza oggettiva in passato, la realtà contemporanea ci sta dimostrando esempi in senso opposto nell’uno e nell’altro caso. Sotto il primo profilo il contenzioso internazionale vede e vedrà sempre più frequentemente il rovesciamento della prospettiva indicata, con l’investitore pubblico o privato cinese, indiano, indonesiano ecc. alle prese con controversie la cui controparte è un Paese occidentale. Quanto all’identificazione della figura (e della dimensione) dell’investitore non si vede perché un accordo volto a garantire un migliore accesso al mercato salvaguardando gli standard di protezione dei consumatori non dovrebbe essere usufruibile dalle piccole e medie imprese. Sarà poi utile ricordare che proprio la recente prassi internazionale ci offre la possibilità di osservare come in taluni casi il risparmiatore o il gruppo di risparmiatori titolari di obbligazioni emesse da uno Stato che impone condizioni inique di rinegoziazione del debito, sembra trovare solo nell’ICSID (dunque nella realtà di risoluzione arbitrale delle controversie) l’unica possibilità di ottenere ascolto.
I precedenti delle clausole ISDS negli accordi con Singapore e Canada depongono a favore di un modello che prevede la possibilità di accesso al meccanismo arbitrale nelle sole ipotesi relative alla violazione di punti fondamentali del relativo accordo. Naturalmente, rispetto al modello di tali accordi, è invece opportuno suggerire alcuni interventi che potrebbero introdurre previsioni più innovative e corrette su alcuni punti specifici.
In proposito sono già state avanzate, da ambiti diversi, proposte volte a garantire il divieto di un ricorso arbitrario o incontrollato al meccanismo ISDS; tra queste si segnala, ad esempio, uno studio del BEUC del 2014 in risposta alla consultazione pubblica lanciata dalla Commissione, che propone l’introduzione di un meccanismo di filtro preventivo mediante l’intervento di un panel di funzionari ed esperti governativi dello Stato ospite in funzione di “ex-ante regulatory and diplomatic screen” per consentire il successivo ricorso all’arbitrato . Meno condivisibile pare, per contro, la proposta contenuta nel medesimo documento di limitare il ricorso all’arbitrato ISDS solo dopo che l’investitore abbia preventivamente esaurito le vie di ricorso interne. Tale ipotesi oltre a non rappresentare affatto l’applicazione di una preteso “principio fondamentale del diritto internazionale” – trattandosi al contrario di una regola di carattere eccezionale utilizzata ad esempio nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come condizione per consentire l’accesso alla Corte europea (CEDU) - presenta anche palesi svantaggi pratici senza contribuire a ridurre le ipotesi di contrasto tra affermazione della giurisdizione statale e attribuzione della competenza al tribunale arbitrale internazionale.