Con il provvedimento n. 25868 del 10.2.16 pubblicato sul bollettino AGCM n. 5-16 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato scrive un nuovo capitolo della lunga diatriba con il Consiglio Nazionale Forense.
Era tutto iniziato con il provvedimento 25154/14 con il quale l’AGCM accertava un’infrazione alla normativa antitrust da parte dell’organo supremo dell’avvocatura italiana: era stigmatizzata la diffusione di un parere che, tra l’altro, considerava una forma illegittima di accaparramento della clientela l’adesione a circuiti quali “Amica Card”.
L’Autorità rilevava infatti che tale parere di fatto impediva agli avvocati italiani di utilizzare piattaforme digitali per pubblicizzare i propri servizi professionali anche con riguardo alla componente economica degli stessi. Tali strumenti “costituiscono un mezzo idoneo per fornire agli avvocati nuove opportunità professionali, offrendo loro una maggiore capacità di attrazione di clientela rispetto alle tradizionali forme di comunicazione pubblicitaria; inoltre, tali strumenti permettono agli avvocati di penetrare nuovi mercati, consentendo di mettere in concorrenza servizi offerti da professionisti anche geograficamente distanti tra loro. Gli avvocati, come noto, pur essendo iscritti presso uno specifico albo circondariale, possono liberamente esercitare la propria attività professionale sull’intero territorio nazionale, dovendo, esclusivamente nel caso di attività giudiziale, munirsi di un domiciliatario per ricevere la notifica degli atti processuali, laddove non abbiano una sede nel luogo dove si trova l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso”.
Questo provvedimento è stato poi impugnato dal CNF avanti al TAR Lazio che, con sentenza n. 8778/15, ha sostanzialmente confermato la correttezza dello stesso sul punto.
In assenza di adempimento spontaneo (ricordiamo che il TAR non aveva concesso la sospensiva), l‘AGCM ha quindi emesso il provvedimento in commento ritenendo del tutto insufficiente la “interpretazione autentica” che il CNF ha dato del suo parere. In detta “interpretazione autentica” il CNF affermava che “la ratio del parere n. 48/2012 non era quella di limitare le possibilità di concorrenza tra iscritti attraverso un’informazione sulle caratteristiche della prestazione ma piuttosto quella di stigmatizzare la ricerca e l’acquisizione di clientela, e quindi l’uso di mezzi che potessero, e possano, facilmente degradare ad improprio accaparramento di clientela attraverso la suggestione creata esclusivamente dalla convenienza economica che, enfatizzata, sarebbe divenuta l’unico criterio per orientare la scelta dell’utente”.
Tale precisazione affatto tautologica, però, non convince l’AGCM che giustamente rileva come questa dichiarazione non aggiunga nulla di nuovo ma, anzi, confermi vieppiù il parere già oggetto di sanzione proprio perché tendente ad escludere una (legittima) forma di comunicazione commerciale e di promozione dell’attività professionale.
Il nodo della questione peraltro risiede nella vaga definizione contenuta nell’art. 37 del codice deontologico forense che vieta all’avvocato di “acquisire rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro”.
Una lettura forse meno partigiana del testo dell’articolo sembra piuttosto vietare all’avvocato di retribuire soggetti per la presentazione di singoli e ben individuati clienti e non dovrebbe quindi trovare applicazione alle inserzioni su piattaforme on line regolate invece dall’art. 17.
L’attrazione fatale per l’art. 37 sembra piuttosto essere dettata dalla possibilità di invocare i poteri massimamente discrezionali concessi da tale norma che, come clausola di chiusura, consente di sanzionare comunque tutte le modalità di procacciamento della clientela non conformi alla dignità ed al decoro.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che il CNF assomma su di sé anche le funzioni giudiziarie in materia deontologica, non v’è chi non veda come l’interpretazione proposta finisca per conferire al CNF stesso (legislatore e giudice allo stesso tempo) il potere di fatto di scegliere discrezionalmente caso per caso i mezzi ed i messaggi consentiti per di più sanzionando a posteriori quanti hanno fatto scelte “sgradite”.
De iure condendo, sarebbe quindi auspicabile una maggior precisione delle fattispecie disciplinari che riduca al minimo la possibilità di scelte discrezionali e una radicale riforma della giurisdizione deontologica da riportare, con tutte le garanzie aggiuntive del caso, nell’alveo della giurisdizione ordinaria.