È (ancora) tempo di liberalizzazioni all’interno del Ddl Concorrenza del 20 febbraio 2015, approvato dal Consiglio dei Ministri nel segno della crescita economica “frenata dalla scarsa concorrenza nel settore dei servizi”. Lo scenario è simile in Francia, dove le riforme hanno già dato filo da torcere, considerando ciò che è accaduto con la recente legge Macron che interviene in settori cruciali per il rilancio dell’economia.
Ritoccando quanto già oggetto delle più organiche leggi sugli ordinamenti professionali, rispettivamente la legge n. 247 del 31 dicembre 2012 (avvocati) e la legge n. 89 del 16 febbraio 1913 (notai), la proposta in esame vorrebbe, tra gli altri, imprimere tratti concorrenziali più marcati a settori che storicamente, attraverso forme di regolamentazione restrittive della concorrenza, si sono tenuti ben a distanza dalle logiche del mercato.
Come si è anticipato, il susseguirsi dei tentativi di liberalizzazione nel settore delle professioni regolamentate è un processo risalente, già noto ed articolato, che nel tempo ha incontrato l’opposizione marcata dei professionisti interessati, rimanendo per questo motivo finora per lo più incompiuto.
I primi progetti di riforma delle professioni risalgono alla metà degli anni Novanta, giungendo ad una parziale realizzazione solo con il Decreto Bersani del 2006 (decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006). Quest’ultimo, per dare piena attuazione al principio di matrice europea di libera concorrenza e libertà di circolazione delle persone e dei servizi (art. 2), affrontò –ed almeno in parte modificò- gli spinosi temi dell’abrogazione dei minimi tariffari e della possibilità di pubblicizzare la propria attività, nonché di costituire società tra professionisti di carattere interdisciplinare. Queste misure, ostacolate da gran parte dagli ordini professionali, erano volte ad eliminare una sostanziale uniformità dei compensi, che di fatto limitava la concorrenza nell’ambito delle professioni non consentendo ai consumatori di beneficiare di politiche più competitive sotto il profilo dei costi.
Si è poi tornati in argomento nel 2011 con la cosiddetta “manovra di ferragosto” (decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011), che introduceva la pubblicità libera, la necessità di esplicitare al cliente la complessità dell’incarico in relazione al compenso sin dalla sua assunzione, nonché l’obbligo di assicurazione; ulteriori interventi in linea con questi ultimi sono poi stati oggetto della legge di stabilità del 2012, nonché del cosiddetto decreto cresci-Italia sulle liberalizzazioni (decreto legge 24 gennaio 2012 n.1). Le ultime tre normative citate avrebbero inteso altresì postulare l’esercizio della professione in forma societaria, secondo i modelli regolati dal Codice Civile, consentendo la costituzione di società di capitali aperte anche alla partecipazione di soci non professionisti. Tuttavia, tali aspetti non sono stati poi confermati in sede di legge di conversione e la questione è pertanto ad oggi ancora aperta.
Esaminando ora le novità nel dettaglio, il disegno di legge (art. 26) interviene innanzitutto sull’articolo 4 della legge n. 247 del 31 dicembre 2012 eliminando l’obbligo per il professionista di far parte di una sola associazione tra avvocati e, proprio ad evitare tale esclusiva, facendo venir meno anche l’obbligo di stabilire il domicilio professionale nella sede dell’associazione stessa. Quest’ultimo aspetto tuttavia, legittimando per così dire una “libera circolazione” del professionista, potrebbe dar luogo se non altro a conflitti di interesse tra le varie formazioni di cui questi fa parte sotto il profilo del procacciamento di clientela.
Giungendo poi ad uno dei punti più spinosi del Ddl, in esso riaffiora una norma (il nuovo 4-bis) che apre all’esercizio della professione forense in forma societaria anche ai soci di capitali, purché “a regime” per quanto riguarda la deontologia. A temperare i potenziali effetti della riforma potrebbero soccorrere alcuni correttivi, che non farebbero vacillare del tutto l’attuale assetto. E ciò, sia in termini di personalità della prestazione, comunque riservata soltanto ai soci in possesso dei requisiti necessari all’esercizio della professione, sia in termini di responsabilità, considerato che in ogni caso la responsabilità del singolo professionista si affiancherebbe a quella della società e dei soci. A questo proposito, è d’obbligo una breve chiosa, considerando anche quanto già osservato in sede di commento alla legge n. 183 del 10 novembre 2011. È infatti indubbio che gli strumenti e le risorse offerte dall’esercizio dell’attività in forma societaria, tanto più laddove vi sono soci di capitali, siano in grado di soddisfare l’attuale esigenza di adeguamento alla complessità e all’internazionalizzazione della professione forense. Tuttavia, è altresì evidente che tale necessità, sia essa richiesta o imposta dal mercato, riguarda un numero esiguo di studi legali italiani, considerando che la maggior parte di essi è ancora a composizione uni personale, o quasi. Una riforma in questa direzione allarma i legali italiani, come testimonia anche una recente intervista rilasciata dal Presidente dell’Associazione Nazionale Avvocati, ad avviso del quale l’esercizio dell’attività forense da parte di società multidisciplinari potrebbe minacciare il segreto professionale e l’inserimento del socio di capitali potrebbe inquinare lo svolgimento della professione e dell’andamento dei processi.
Senz’altro degna di nota è infine la previsione di cui alla lettera h) del primo comma dell’art. 26, volta ad introdurre per l’avvocato l’obbligo di preventivo da comunicarsi per iscritto, attualmente limitato ai casi in cui a richiederlo sia il cliente stesso. Tale misura, che agevolerebbe un trattamento economico di vantaggio per i consumatori, si lega strettamente alla vexata quaestio della problematica dei minimi tariffari, su cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha di recente sanzionato il CNF in modo significativo con il Provvedimento n. 25154 del 22 ottobre 2014.
Sono poi numerose le proposte che riguardano la professione notarile. Una parte di esse è volta a modificare i requisiti di accesso e di appartenenza alla categoria, come l’eliminazione del reddito minimo di 50.000 euro, l’allargamento del bacino di competenza, che dal distretto di Corte d’Appello in cui si trova la sede assegnata passerebbe a quello della Regione, ed infine l’eliminazione del divieto di pubblicità. Un’altra parte, invece, contempla misure più significative e d’impatto per i consumatori. Tra di esse, è senz’altro rilevante e non mancherà di sollevare obiezioni la previsione di cui all’art. 29 del Ddl, che vorrebbe semplificare il passaggio di proprietà di beni immobili ad uso non abitativo di valore catastale inferiore a 100.000 euro, nonché la costituzione o la modificazione di diritti su tali beni, consentendola agli avvocati purchè muniti di polizza assicurativa con massimale almeno pari al valore del bene dichiarato. In aggiunta, la riforma intenderebbe eliminare l’obbligo di costituire le cosiddette “società a responsabilità limitata semplificata” esclusivamente per atto pubblico (art. 30), nonché ampliare le ipotesi di atti per le quali è consentita la sottoscrizione digitale (art. 31).
Si dovrà quindi attendere un cambiamento culturale, prima che politico e legislativo, per far sì che le liberalizzazioni nel settore delle professioni legali possano spiccare il volo. Da un lato infatti il processo di ampliamento della tutela dei consumatori registra un segno positivo, anche sotto il profilo dell’educazione, in ambiti come i servizi finanziari, che possono considerarsi quasi fungibili tra loro. Ma dall’altro, per quanto attiene al settore dei cosiddetti servizi professionali, si potrà intravedere una prospettiva di riforma soltanto con l’equilibrio tra gli interessi economici ed il rispetto di principi stratificatisi in secoli di professioni orientate a logiche ben differenti.