I mezzi di informazione riportano ormai quotidianamente dati sui comportamenti d’acquisto. Ma sono dati frammentari, che riguardano i risultati di ricerche che si concentrano su uno o poche delle domande che si possono fare in merito. Così, di volta in volta, ci viene detto che aumentano gli acquisti online, oppure che crescono quelli fatti nei centri commerciali o nei factory outlet, o ancora che riprendono quelli effettuati nei centri storici e nelle maggiori vie commerciali grazie alle iniziative di rilancio attuate con strumenti associativi. In definitiva, le informazioni che ci arrivano finiscono per produrre un effetto di miopia: ci concentriamo su un singolo fenomeno e perdiamo di vista l’insieme: il peso relativo che le diverse alternative di acquisto effettivamente hanno.
Una ricerca proposta da TradeLab, con la partecipazione di Canali, una società che cura la comunicazione nei centri commerciali, e di GS1, l’istituto che attribuisce i codici a barre che identificano i prodotti, ha provato a dare una visione d’insieme. La ricerca parte da due premesse metodologiche. La prima riguarda la definizione delle macro alternative d’acquisto, definite come polarità, quindi come “contenitori” commerciali che si propongono come possibili destinazioni per gli acquisti. Quelle identificate nella ricerca sono le principali: i centri commerciali, i factory outlet center, i parchi commerciali, i centri o le principali vie commerciali urbane e internet. Quest’ultimo è quindi considerato una polarità come le altre, che offre l’alternativa dell’e-commerce. Infine, poiché una parte degli acquisti viene effettuata in punti vendita al di fuori delle polarità, quelli isolati del commercio diffuso (esercizi tradizionali, ma anche quelli della Gdo, come supermercati e altre superfici stand alone), quest’ultima possibilità viene considerata e valutata come (importante) opzione residuale. La seconda premessa metodologica riguarda i contesti territoriali su cui è stata svolta l’indagine. L’accesso alle diverse polarità alternative dipende infatti dalla loro effettiva disponibilità per il consumatore. La ricerca si è quindi concentrata su tre aree metropolitane dove tutte le alternative sono presenti, una ciascuno per Nord, Centro e Sud: quelle di Milano, Roma e Catania. Per ogni area metropolitana sono stata fatte 1.000 interviste.
Veniamo ai risultati e consideriamo anzitutto dove i consumatori raccolgono l’informazione necessaria per decidere cosa comprare (Tavola 1). La fonte principale rimangono i negozi fisici (78,1%), con un secondo posto occupato, a molta distanza, da Internet (8,3%). In quest’ultimo caso la media nasconde però una situazione polarizzata per età: per i più giovani (meno di 45 anni) la percentuale sale al 17%, mentre scende al 2% per i meno giovani. Da rilevare che al terzo posto (7%) si ritrova uno strumento molto tradizionale, il volantino, che dimostra una vitalità ancora elevata. Molto basse, invece, le percentuali per le diverse forme di pubblicità. Relativamente alla visita ai negozi, la posizione delle varie polarità come fonte di informazione vede una netta prevalenza dei centri commerciali, che costituiscono il principale punto di riferimento per più del 40% degli intervistati. Seguono i negozi delle polarità urbane (19%) e rimane significativo anche il ruolo del commercio diffuso (16%). In definitiva, una situazione ancora caratterizzata da comportamenti tradizionali (negozi fisici), ma dove il centro commerciale ha conquistato un primato. Da notare, infatti, che i risultati per le tre aree metropolitane considerate sono sostanzialmente identici.
Tavola 1 – Le fonti informative per gli acquisti
Fonte: Tradelab
Le modalità con cui i consumatori si informano sono anche valutate per alcune principali categorie merceologiche (Tavola 2). La visita a negozi rimane sempre la fonte informativa principale e raggiunge percentuali elevatissime per l’abbigliamento (sopra il 90%) e i prodotti per la cura della persona (86,9%). Ma va anche rilevata la rilevanza che ormai ha la ricerca in rete per l’elettronica di consumo (48,5%) e la telefonia (22,9%), e, sul lato opposto, dove ancora pesa uno strumento che appare inossidabile, i volantini per l’alimentare (20,4%).
Tavola 2 – Le fonti informative per categoria di prodotto
Fonte: Tradelab
Ma veniamo all’acquisto vero e proprio. Ancor più che per l’informazione, per l’acquisto è evidente il ruolo centrale che oggi hanno consolidato i centri commerciali, che ormai assorbono poco meno della metà delle spesa dei consumatori (45,5%). Segue il commercio diffuso (29,9%) e le polarità urbane (19,3%). Internet si ferma invece al 2.5%, dimostrando di essere ancora una strumento più utilizzato per informarsi che per acquistare e va notato che ciò vale anche per i più giovani per i quali la percentuale, pur salendo al 4%, resta molto al di sotto di quella vista più sopra per la raccolta di informazione (17%). Per quanto riguarda le diversità di comportamento fra le tre aree metropolitane considerate, l’unica rilevante è la crescita del peso del commercio diffuso da Nord a Sud: a Milano pesa per il 24%, a Roma per il 29% e a Catania per il 33%.
Tavola 3 – Le quote di spesa per polarità commerciale
Fonte: Tradelab
Se si considerano i comportamenti d’acquisto per le diverse merceologie, emergono alcune differenze significative. Nell’alimentare la spesa è divisa fra commercio diffuso (44,6%), che offre prossimità, e i centri commerciali (42,6%), che in Italia vedono quasi ovunque la presenza di un ipermercato. Nell’abbigliamento e nella cura della persona si ritrovano le percentuali più elevate relative alle polarità urbane: è su questa componente dell’offerta che ottengono i migliori risultati. Lo stesso vale per il commercio diffuso che, una volta di più, continua a di mostrare la sua vitalità. Sommando polarità urbane e commercio diffuso, la percentuale di spesa per queste merceologie effettuata in città si colloca attorno al 55%. Si noti inoltre, sempre per l’abbigliamento, il peso assunto dai factory outlet (4,3%). I centri commerciali diventano invece dominanti per elettronica di consumo (56,9%), telefonia (55,7%) e beni per la casa (48,2%). Nei primi due casi, si concentra la presenza di internet, con quote rispettivamente del 7,9% e 7,1%.
Gli spunti di interesse che emergono dalla ricerca sono molti. Anzitutto, va sottolineato che la scelta di considerare tre aree metropolitane dove tutte le alternative sono presenti permette di ottenere una proiezione di come sarebbero i comportamenti dei consumatori in contesti dove oggi alcune di queste alternative non sono o sono solo parzialmente presenti (centri commerciali, factory outlet, parchi commerciali). Detto altrimenti, le quote di spesa delle singole polarità rilevate nelle tre aree metropolitane non corrispondono a quelle per l’intero paese, ma a quelle che si potranno determinare quando la modernizzazione del nostro sistema distributivo sarà finalmente compiuta.
Tavola 4 – Le quote di spesa per polarità commerciale e per categoria di prodotto
Fonte: Tradelab
In generale, si confermano abitudini d’acquisto “tradizionali”: internet ha un peso ancora modesto, in particolare per l’acquisto vero e proprio, mentre, specie fra i più giovani, si sta consolidando il suo ruolo nella fase di ricerca. Un risultato che non dovrebbe stupire considerando che in Italia esistono 750 mila esercizi commerciali, molti parte dei quel tessuto di commercio diffuso che si è visto avere un peso notevole. Un dato che non andrebbe dimenticato quando si compara l’e-commerce in Italia con quanto avviene in altri contesti: in Gran Bretagna, dove raggiunge le percentuali più elevate, i punti vendita sono 250 mila e il commercio diffuso, che svolge una funzione di prossimità, è praticamente scomparso.
In rapporto al ruolo delle varie polarità “fisiche”, emerge con forza la rilevanza che assumono i centri commerciali: con buona pace di chi li vede come corpi estranei che mettono a repentaglio il tradizionale assetto del commercio italiano, per la gran parte dei consumatori sono diventati un punto di riferimento consolidato sia per informarsi che per acquistare. Ciò non significa che le alternative urbane, sia centri storici e vie commerciali sia commercio diffuso, non rimangano un riferimento importante. Anzi, in particolare per i primi, le azioni di rilancio stimolate dalla concorrenza dei centri commerciali (il cosiddetto town centre management) sta portando risultati importanti: per lo shopping, e quindi per la ricerca di prodotti con una forte valenza di identificazione personale, il commercio urbano rimane il riferimento principale per molti consumatori.
Il quadro che emerge, e non dovrebbe stupire, testimonia della ricchezza delle opzioni a disposizione del consumatore e della conseguente complessità che assumono i comportamenti d’acquisto. C’è spazio per tutte le alternative a patto che chi le presidia cessi di pensare al commercio come a un attività statica, che si può svolgere semplicemente aprendo una vetrina su un fronte strada. In un contesto competitivo è esattamente l’opposto, è un attività che richiede adattamenti e ripensamenti per riconquistare continuamente un consumatore che ha a disposizione tante diverse alternative.