Il settore dei taxi e quello, simile, del "noleggio con conducente" (NCC) ha un rilevante ruolo economico nei paesi sviluppati: si pensi che in una città con molta domanda d'affari come Milano, si stima che il fatturato del settore non sia inferiore a quello del trasporto pubblico (in area urbana), cioè dell'ordine dei 300 milioni di Euro annui.
Occupa alcune decine di migliaia di persone a livello nazionale, ed ha un rilevante indotto (manutenzione dei veicoli ecc.). Si presterebbe anche ad introdurre veicoli innovativi a basso impatto ambientele, che necessitano di una "massa critica" sia per introdurre sistemi di alimentazione standardizzate (rifornimento di elettricità, per esempio, centri di manutenzione, ecc.), tali da accelerare la diffusione di tali tecnologie presso il più vasto pubblico.
Una ricerca di qualche anno fa svolta dall'ACI ha anche messo in luce che la domanda per questo servizio è molto elastica, cioè che un abbattimento delle tariffe vedrebbe un più che proporzionale aumento dell'utenza, e che tale utenza non è affatto limitata agli alti redditi, come si potrebbe pensare. Infatti per spostamenti occasionali di persone o famiglie prive di automobile è spesso indispensabile, specialmente quando vi siano molti bagagli da trasportare, o condizioni di ridotta mobilità.
Ma il settore è caratterizzato in Italia (e non solo) da una ridotta governabilità: è composto solo da artigiani individuali proprietari del veicolo (le imprese con molti veicoli e personale dipendente non sono ammesse), e non prevede alcuna possibilità di competizione tariffaria. I vincoli normativi imposti al NCC infatti limitano ad una nicchia poco rilevante questo tipo di servizio, che ha l'obbligo di rimanere in autorimessa fino a che l'utente non gli telefoni, e spesso di operare solo nel comune di residenza. Anche l'aumento del numero di licenze, spesso vistosamente insufficienti, è fortemente vincolato. Le licenze infatti hanno raggiunto valori molto rilevanti nel "mercato secondario", che è consentito. Tale valore è espressione diretta della "rendita da scarsità" che si genera nel settore. I titolari delle licenze giustificano questi valori come "alternativa alle pensioni di cui non godono"; concetto alquanto peculiare, se dovesse essere esteso a tutte le attività artigiane.
Un monopolio perfetto dunque, capace di paralizzare grandi realtà urbane, e di condizionare con una massa compatta di voti il consenso locale. Anche sul piano fiscale i tentativi di introdurre controlli adeguati non hanno avuto successo, come parimenti non si è riusciti ad imporre la disponibilità di carte di credito, o di modalità innovative del tipo taxi collettivi a chiamata, pur possibili con le tecnologie informatiche oggi disponibili.
I tentativi di riforma falliti sono numerosi, e clamorosi: ci provò l'assessore Tocci a Roma, estendendo le licenze regalando quelle nuove ai titolari precedenti, al fine che la diminuzione di valore non danneggiasse chi le avesse acquistate. Il risultato fu che l'iniziativa fallì, e Tocci fu "dimissionato" dal suo stesso partito". Poi ci provò il governo Monti, ad introdurre elementi di liberalizzazione, che furono via via ammorbiditi fino a che il tema fu cancellato del tutto dal programma. Anche la neo-costituita autorità indipendente dei trasporti, per buona misura, sembra sia stata esautorata dall'occuparsi del settore, per non correre rischi di possibili sorprese future, e questa decisione sarebbe certamente da ripensare.
Un problema solo italiano? No, si tratta di una lobby molto forte e coesa anche all'estero: notoriamente l'amministrazione di New York ha impiegato cinque anni di negoziati per strappare modesti miglioramenti, ma in USA da sempre sono attive società che operano con dipendenti.
Un caso di competizione reale, anche se con molti vincoli, è quello inglese, dove, constatate le difficoltà di riformare direttamente il settore, si è puntato sulla accentuazione della competizione tra taxi e NCC, che oggi configurano una reale alternativa per l'utenza.
In Italia recentemente abbiamo assistito ad una clamorosa conferma dell'estrema difficoltà di aprire il settore all'innovazione, con le proteste contro l'amministrazione milanese che non avrebbe imposto vincoli sufficienti ad un nuovo soggetto, UBER, che ha tentato di entrare nel mercato (e finora con buon successo). Vincoli richiesti dai tassisti stessi pare anche con metodi non precisamente ortodossi e al limite della legalità, ma comunque appoggiati alla normativa esistente, che, come si è detto, impedisce di fatto ogni ragionevole concorrenza, che in questo caso non è neppure diretta. Si tratta infatti di un servizio a chiamata internet (mediante una "app") che garantisce l'ottimizzazione dell'uso dei veicoli procurando al cliente la disponibilità della macchina più prossima, ma con tariffe mediamente più alte di quelle dei taxi. Certo, trattandosi di autonoleggio, il sistema non prevede che il veicolo sia obbligato a sostare in garage, come prevede l'assurda norma attuale. Si tatta di una impresa statunitense, dove il servizio è consolidato ed apprezzato da molto tempo, che si rivolge soprattutto ad una clientela d'affari.
Si tratta dunque di una concorrenza sulla qualità, e non sui prezzi. Quest’ultima forma di concorrenza, certamente possibile abbassando un pò lo standard dei veicoli di UBER, sarebbe assai più devastante per gli interessi dei tassisti, ed assai più benefica per i milanesi. Ma l’innovazione non si fermerà neppure qui: UBER stessa, e prima di lei Google negli stati uniti, opera un servizio informatico per i noleggi senza conducente “peer to peer”, cioè per mettere in contatto chi è disposto a noleggiare la propria auto nelle ore in cui non la usa, a chi ne ha bisogno. Il tutto in un quadro “di club”, cioè di garanzie assicurate dalla società che fornisce il servizio.
Che fare, allora? La risposta non sembra essere possibile che in termini di "gradualità annunciata": ogni amministrazione locale definisca una traiettoria temporale di liberalizzazione, incentivando l’adozione delle nuove tecnologie informatiche da parte dei tassisti attuali. Occorre anche che sia data ampia pubblicità a questa politica ai titolari attuali, ma soprattutto ai beneficiari, cioè al pubblico degli utenti. Certo dovranno essere evitati i ricorrenti errori del passato, nei quali si dichiarava esplicitamente un obiettivo "mediato" da raggiungere (si pensi alle licenze regalate ai titolari ecc.). La strategia pubblica non dovrà prevedere mediazioni nei contenuti, e dovrà lasciare alla mediazione tra le parti solo la temporalizzazione dei provvedimenti. Se si media prima di iniziare un negoziato, è abbastanza ovvio che il risultato finale sarà molto deludente, o più probabilmente nullo.
In sintesi: si pensi prima a proteggere gli interessi dei cittadini, e poi quello di che fornisce i servizi, che vanno certo almeno temporalmente tutelati, ma non a discapito dei primi.