In questi ultimi dieci anni le stazioni ferroviarie italiane hanno subito una trasformazione radicale, che ha accompagnato il cambiamento che l’intero comparto del trasporto su ferro ha subito per effetto delle politiche di privatizzazione e di parziale liberalizzazione. Questa trasformazione è palese sia nelle grandi stazioni, anche quelle storiche, che appaiono sempre più simili a centri commerciali, sia in quelle medio-piccole, spesso pressoché abbandonate e nelle quali è divenuto difficoltoso anche l’acquisto del biglietto (specie se il viaggio tocca aree servite da più di un gestore). Oltre agli aspetti funzionali ed esteriori, quello che più traccia il confine con il passato è la scomparsa della figura del capo-stazione, emblema di un sistema in cui erano assolutamente preminenti gli interessi pubblici al buon andamento del servizio e, nel contempo, il viaggiatore era tutelato come utente e non come semplice cliente. A parte ogni romanticismo, oggi ci si può chiedere se sia compatibile con il mutato assetto del sistema (sul quale v. S. Maggi, Le ferrovie, Bologna, 2003) peraltro certamente ancora lontano da approdo definito e stabile (si pensi alla ancora non conclusa vicenda dell’avvio dell’Autorità indipendente che dovrebbe completare il percorso della privatizzazione del gestore pubblico), un completo abbandono delle funzioni di interesse generale proprie delle stazioni, a favore di ristrutturazioni che appaiono orientate esclusivamente ad aumentare le capacità degli immobili di produrre utili da locazioni. Il tema è poi reso ancora più complesso dal fatto che le stazioni sono anche i punti di contatto e di interscambio tra le linee tradizionali e quelle ad alta velocità, sulle quali hanno iniziato ad operare gestori privati. Questa situazione ha già generato alcuni conflitti per la decisione che è stata, per ora, assunta di non far operare la nuova compagnia privata sulle stazioni principali di Milano e Roma e per alcuni ostacoli che anche presso la stazione di Roma Tiburtina hanno incontrato i viaggiatori dello stesso nuovo gestore. Criticità si appalesano anche in altre stazioni, come quella di Milano Rogoredo e questo a causa della ristrettezza degli spazi e della creazione di zone riservate a clienti “fidelizzati” dell’alta velocità (salette Freccia Rossa) in strutture ad alta frequentazione di pendolari. Il che, creando di fatto utenti di serie A (alta velocità con tessera speciale), di serie B (alta velocità senza tessera) e di serie C (tutti gli altri), mette a repentaglio un canone di base del servizio di interesse generale: quello della parità di trattamento degli utenti.
Se questo è il quadro di fatto, la domanda cui un giurista trasportista (o, come si dice in gergo, trenista) deve porsi è se, per effetto della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e del trasferimento dei beni ferroviari al nuovo soggetto, attuato dalla legge (art. 15 della legge 17 maggio 1985 n. 210), anche le stazioni ferroviarie siano state in sostanza “privatizzate” e siano, di conseguenza, gestibili dalle due società appositamente create, nell’ambito della nuova holding (Grandi Stazioni S.p.A. e Centostazioni S.p.A.), del tutto liberamente e con tutte le facoltà del privato proprietario. Oppure, se sussista tutt’ora un vincolo pubblicistico di destinazione (o una servitù a favore del pubblico) che renda vincolata la preminenza dell’aspetto strumentale e di servizio al trasporto ferroviario e se a questo vincolo corrispondano particolari facoltà e diritti dei viaggiatori-utenti. Il tema è di grande interesse e spessore, anche in quanto per la sua soluzione si rende necessario porsi una più generale domanda sulla natura del trasporto ferroviario come servizio di interesse pubblico generale, indipendentemente dalla corrente distinzione tra treni c.d. “a mercato” e treni per il quali il gestore riceve corrispettivi (o meglio sussidi) in forza di contratti di servizio, nazionali o regionali. Distinzione che, a ben vedere, potrebbe rilevare solo sul piano del diritto della concorrenza ma non incidere sulla condizione giuridica dei beni ferroviari.
Dirò subito che su questo secondo tema la mia posizione è nel senso che tutto il trasporto ferroviario sia servizio pubblico in senso oggettivo, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del soggetto che lo svolge. Lo è senz’altro sia se si considera la teoria classica, secondo cui è servizio pubblico ogni attività economica sottoposta ad un particolare regime di indirizzo e controllo (Pototschnig, I pubblici servizi, Padova, 1964), sia se si prendono in considerazione gli indici rilevatori che oggi utilizza la giurisprudenza del Consiglio di Stato (tra le tante, Sez. V, 2 maggio 2013 n. 2385) per identificare la categoria in questione. In particolare, tra questi, la sua destinazione a soddisfare un interesse di carattere generale della collettività (nel nostro caso il diritto ad ottenere una prestazione essenziale per la vita), la predisposizione di obblighi di condotta (standard di qualità) ed il mantenimento in capo ad un soggetto pubblico di poteri di indirizzo, vigilanza e di controllo. Non pare del resto estranea a questa generalizzata qualifica la messa a disposizione di beni pubblici, quali le infrastrutture di rete e le stazioni, che sono state finanziate dallo Stato, nel corso di oltre un secolo, con i proventi della fiscalità generale.
Venendo ai dati normativi, il già citato art. 15 della legge n. 210 del 1985 (legge con cui è stato istituito l’ente “Ferrovie dello Stato” ha disposto, al comma 1, che i beni mobili ed immobili trasferiti all’ente o comunque acquisiti nell’ambito dell’attività “costituiscono patrimonio giuridicamente ed amministrativamente distinto dai restanti beni delle amministrazioni pubbliche e di essi l’ente ha piena disponibilità secondo il regime civilistico della proprietà privata…”. Successivamente è intervenuta la legge n. 448 del 1998 che all’art. 43, comma 2, ha stabilito che: “l’acquisizione, l’attribuzione e la devoluzione dei beni immobili che risultano iscritti nel bilancio della Società Ferrovie dello Stato S.p.A. al 31 dicembre 1997, così come certificato dalla società di revisione ed approvato dall’assemblea dei soci, si intendono avvenute a titolo di trasferimento di proprietà”. Successivamente è stato aggiunto un comma 2-bis che si è occupato di agevolare, anche sul piano fiscale, le operazioni di trascrizione, intavolazione e voltura di tali beni nei pubblici registri immobiliari. Non pare potersi dubitare che con queste disposizioni si sia determinata una fuoriuscita dei beni ferroviari e quindi anche degli edifici adibiti a stazioni dall’ambito del demanio, benché sia stata avanzata dalla Corte dei Conti (relazione Sezione controllo del 2 giugno 1998 n. 67/rel.) la tesi che la spa pubblica sia solo “usuaria” di questi beni. La Corte di Cassazione ha invece affermato che attualmente tali beni sono nella disponibilità negoziale (di diritto privato) della società, ancorché destinati all’esercizio del pubblico servizio (Sez. Unite, 27 febbraio 2006, n. 4269). Sulla stessa linea il Consiglio di Stato, anche se in termini più problematici e sensibili ad una sostanziale permanenza di una “specialità” della disciplina di questi beni, in quanto “trattasi di una proprietà speciale finalizzata all’esclusivo servizio ferroviario, con tutte le cautele e le garanzie che tali finalità comportano” (Sez. V, 4 giugno 2003, n. 3074). Lo stesso Consiglio di Stato, dovendo affrontare il tema della disciplina applicabile agli appalti di Grandi Stazioni S.p.A. dei servizi di pulizia nelle stazioni ferroviarie, ha espressamente affermato che: “le stazioni ferroviarie vanno qualificate come elementi costitutivi della rete ferroviaria destinata al servizio pubblico di trasporto" (Ad. Plenaria, 23 luglio 2004, n. 9). Il che ha fatto richiamare ad alcuni autori (fra i quali V. Parisio, “Beni ferroviari, servizio di trasporto ferroviario, demanio, patrimonio”, in Foro amm., CDS 2007, 09, 2647) il tema delle reti e la nozione di “essential facility”, tipologia di bene che, in quanto tale, secondo i principi del mercato concorrenziale deve essere messo a disposizione delle imprese utilizzatrici a condizioni eque e non discriminatorie.
In conclusione: è chiaro che, seppure per strade diverse, sia la dottrina sia la giurisprudenza pervengono ad escludere che le società pubbliche cui le stazioni sono pervenute per effetto della privatizzazione ne possano disporre a proprio insindacabile piacimento. E’ altrettanto chiaro che al vincolo di destinazione al servizio dei trasporti e quindi, in primo luogo, a favore dei viaggiatori, debba corrispondere in capo a questi una posizione tutelata dall’ordinamento. In via di prima approssimazione e fatti salvi ulteriori approfondimenti, a chi scrive sembra che la figura che meglio si attaglia sia quella della servitù di uso pubblico, che appunto abitualmente sorge quando un bene sia idoneo ed effettivamente destinato al servizio della collettività. Il che significa che i viaggiatori sono legittimati a tutelare tale servitù a fronte di ristrutturazioni che rendono meno agevole o addirittura impediscono l’utilizzo della stazione, o di porzioni di essa, per lo scopo tipico ed originario per le quali sono state costruite.
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